Un Gabbiano, da Anton Cechov al Napoli Teatro Festival [Recensione spettacolo]
Il “Gabbiano” di Cechov approda al Napoli Teatro Festival grazie alla regia di Gianluca Merolli per il “focus” sul drammaturgo russo
Tuffarsi nei “sottotesti” checoviani è, ancora oggi, il desiderio di tutti i registi teatrali, come lo fu per Stanislavskij nel 1898 quando riuscì a portare in scena al Teatro d’Arte di Mosca la prima versione di successo dell’opera Il Gabbiano.
Da allora Il Gabbiano rappresenta una sfida per chiunque affronti il teatro. Ad una prima lettura banale e didascalico, in realtà il testo scritto nel 1895 da Anton Cechov, si rivela profondo e poetico, denso di significati e carico di simboli, in grado di prestarsi a molteplici interpretazioni.
Gianluca Merolli, giovane attore, cantautore e performer teatrale, ha superato anche la sua prima prova registica, allestendo una versione de Il Gabbiano inedita e sorprendente, che ha debuttato ieri sera in prima mondiale al Teatro Sannazaro di Napoli per il Napoli Teatro Festival, incantando ed entusiasmando il pubblico. (Lo spettacolo è in scena anche stasera per l’ultima replica).
La chiave di lettura di Merolli, nella sua realizzazione scenica di Un Gabbiano, è la morte. Ed è dalla morte di tutti i sette personaggi del testo di Cechov che la rappresentazione ha inizio. Irina Arkàdina e suo figlio Kostantìn Trepliov, la giovane attrice Nina ed il romanziere di successo Trigòrin, la triste Mascia ed il maestro Medvèdenko, appaiono sul palcoscenico come se fossero attori di avanspettacolo. Sette “guitti” alla ricerca di un senso nella propria vita frustrata, sette anime aride e consumate che sopravvivono a sé stesse. Tutti “orchestrati” da Sòrin, il proprietario della tenuta estiva in campagna dove Cechov ambienta il suo Gabbiano.
Sette attori e sette fantocci perché racconto questa storia come se tutto fosse già accaduto, tra il 1896 e il 1925, e ci incontrassimo oggi, anime già morte, a rivivere ciò che è già stato. Questo perché ho voluto raccontare attraverso la ben nota storia cechoviana quanto gli uomini possano essere morti già in vita: “morte” intesa come “impossibilità a vivere” ma anche come “incapacità a vivere”. Quel senso di solitudine e vagabondaggio che ci appartiene e, a volte, ci dispera. In bilico tra morte e non morte, i nostri attori recitano ciò che non hanno potuto non essere, circondati da fantocci abbandonati e da oggetti del passato
La rivisitazione del Gabbiano da parte di Gianluca Merolli dimostra che il banale e noioso mondo cechoviano in cui i personaggi sono immersi, ognuno chiuso nella propria disperazione ed insoddisfazione individuale, rappresenta in realtà il nostro mondo e quello dell’intera umanità. Il dramma si apre con la morte dei personaggi ed i personaggi stessi evocano la morte in ogni momento della loro breve vita scenica.
L’evoluzione della trama non solo è rispettata ma è anche accentuata. I “dolori” dei singoli personaggi sono profondi e vivi. L’Arkàdina è una vecchia attrice frustrata che si nasconde dietro i suoi successi passati; Nina ha l’entusiasmo scoppiettante di chi si appresta a vivere nel mondo dello spettacolo che sognava, ma anche di chi ne resterà profondamente delusa; Trigòrin ha l’aria dello scrittore arrivato il cui talento è rappresentato qui più dalla sua prestanza fisica che intellettuale; Mascia è il personaggio più intenso e disperato di tutta la pièce, in grado di esternare e di trasmettere la propria inquietudine interiore di donna sola ed infelice anche quando finalmente accasata con Medvédenko, suo maestro. E poi c’è Kostja, magistralmente interpretato dallo stesso Gianluca Merolli, che conferisce al protagonista la sua insicurezza da giovane scrittore di teatro, continuamente tormentato e deriso dalla madre Arkàdina e sofferente per l’amore non corrisposto di Nina, che finisce tra le braccia di Trigòrin, il nuovo compagno della madre ed affermato scrittore di teatro, di cui Konstja invidia il talento ma teme il confronto.
Ad accompagnare ognuno di essi un fantoccio, un manichino, ogni tanto mostrato allo spettatore, quasi a sostituire l’anima vuota di esseri ormai senza vita. Uno di questi fantocci rappresenta, nella messa in scena di Merolli, il “gabbiano” sparato da Konstja e donato a Nina, in una delle scene più emblematiche ed intense del testo di Cechov. La presenza di questo “gabbiano” in scena è poi ripetuta più volte, come un monito di vita ed allo stesso tempo di morte che incombe su ognuno dei personaggi.
“Io sono il gabbiano!” grida alla fine del dramma Nina in un ultimo e disperato confronto con Konstja che ha già tentato il suicidio. “Io sono il gabbiano!”, ribatte Konstja. “No!”, urla di risposta Nina, come a vendicare la sua maggiore insofferenza di vita.
Ma probabilmente siamo tutti quel “gabbiano”. Tutti abbiamo la nostra sofferenza interiore, la nostra frustrazione che ci impedisce di vivere e di provare ancora emozioni. Il tipico mondo cechoviano triste, ordinario e monotono, reinterpretato da Merolli, non è mai stato più vicino al nostro mondo. I personaggi che si muovono, si disperano, a tratti danzano e cantano in intermezzi musicali che spezzano la solennità originaria del dramma, ci comunicano la propria insoddisfazione ma anche il loro desiderio di raccontare e di interpretare sé stessi. In un teatro di morte che parte dalla morte per dissacrarla e dove l’unico barlume di speranza è fare teatro. E, in fondo, Il Gabbiano di Cechov è “un testo sul teatro, sui teatranti, sugli scrittori di teatro”.
La morte riesce qui ad “aprire un universo immaginifico, un paradiso laico, in cui ci si può ricordare con distacco e gioco a ciò che si è stati”. La morte come stimolo creativo per dare nuova vita al teatro, come lo stesso Cechov aveva intenzione di fare nel 1896.
Gianluca Merolli è riuscito a rendere universale il significato del Gabbiano ed a trasportarlo nel nostro mondo contemporaneo. La fragilità, la “poetica dei disperati”, l’insofferenza personale e storica della Kiev del 1895, dove Cechov ambienta il dramma, hanno a che fare con la Kiev del 2014, con la sua guerra civile e sanguinosa che sta gettando nella disperazione un paese ed un’umanità intera. Fare teatro può essere un modo per esorcizzare questa ennesima follia umana, nel senso più catartico della parola “teatro”.